A tutela delle collezioni storiche: un frammento della collezione Chiarandà

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Anton Sminck van Pitloo (Arnhem, 21 aprile 1790 – Napoli, 22 giugno 1837) – Il ponte e la chiesa si San Francesco a Cava dei Tirreni, olio su carta applicata su tela cm. 24,5×35.

L’opera proviene dalla raccolta del barone Chiarandà, collezione dispersa in un’asta della Galleria d’Arte Giosi nel 1938 ed acquistata con altre opere dal Banco di Napoli. Esposta in precedenza nel Museo di Capodimonte, attualmente è entrata a far parte della collezioni Intesa Sanpaolo e con una selezione di opere è stata collocata Palazzo Zevallos. Frammenti di una collezione dispersa come tante! Se non fosse stato per il Banco di Napoli, se non avesse acquisito all’asta alcuni capolavori, non sarei qui ad illustrarvela. Scriveva Mattia Limoncelli nella prefazione del catalogo: “Più di un insieme di quadri la raccolta Chiarandà è un racconto di ricerche e di appagamenti: ognuna di quelle opere è un’avventura e pare ne serbi ancora il tremito”. Parole commoventi che ben si abbinano al dipinto del Pitloo in visione. Raffaello Causa, che ha condotto un esauriente studio sull’opera del Pitloo, sostiene a merito:”siamo giunti allo stadio estremo dell’irrequietezza e dello scontento: la parabola si conclude in note inattese di intonazione espressionistica che non saranno mai più raggiunte dalla pittura di paesaggio a Napoli”. Secondo Causa l’opera è databile intorno al 1836, un anno prima della morte dell’artista. Ritengo quella di Pitloo un’ottima interpretazione del paesaggismo nordico, in molte opere si ha il sentore di reminiscenze che ci portano a Turner, ma con uno spiccato senso di innovazione, unito alla sua innata capacità di interpretare la natura in modo vibrante: nella esaltazione dei toni, rende poetica la raffigurazione con l’uso di velature. Dipingere dal vero vuol dire sapere esprimere il fascino della natura colta nella sua essenza, nella magia del momento creativo, percezione e azione. Pitloo riesce a cogliere questa magia con i suoi tratti veloci e istintivi. Ciò rende l’artista, a pieno merito, uno dei pilastri della Scuola di Posillipo. Il barone Chiarandà, nel suo nobile appartamento in Piazza Vittoria al civico 7, aveva definito la sua regia dove ogni opera aveva un rapporto, una relazione non scritta con la successiva; una narrazione persa per sempre. Il Banco di Napoli ha reso pubbliche alcune opere della raccolta Chiarandà, come la merenda dei boscaioli del Cammarano, ma ha dimenticato di acquisirne una importante, il ritratto del barone eseguito da Antonio Mancini che con tocchi decisi coglie il senso di quello sguardo intenso ed enigmatico, tipico di un uomo che ha sete di conoscenza. Quello sguardo vale più di mille parole.

Dario Marco Lepore – Presidente di RAM – RINASCITA ARTISTICA DEL MEZZOGIORNO

 

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